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Torna all'elenco argomenti | Messaggi | Martedi 16 Aprile 2024

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Stai rispondendo al messaggio di: guglielmo
[22-07-2011, a  00:51]
Re: Odio Napoli
quanto segue è solo una parte dell'introduzione di Roberto De Simone alla ripubblicazione dopo trenta anni di "Son sei sorelle".
Sicuramente può fare eco e soprattutto chiarezza a quanto commentato nei post precedenti.
buona lettura:

"… ed è il tempo: quel nodo scorsoio che oggi non può più impiccare, perché fu reciso circa trenta anni orsono, quando ci si rese conto che occorreva impiccare il tempo stesso, per illudere la gente sulla morte delle ore che trascorrono, delle giornate che passano, degli anni che si consumano in una crociera senza più approdi, senza mete, senza terre da toccare.
E il futuro, quale futuro, che significa futuro? Esiste più il futuro con un Moloch inceneritore delle parole quotidiane, di piccoli gesti del comunicare, di silenzi assorti nel ricordare, di colpe e tradimenti incisi con il tic-tac del cuore di ognuno? E mi riferisco anche a quel Moloch – lavagna televisiva e comunitaria di solitudini lunari – in cui la parola futuro ha qualcosa di spaventosamente preistorico, da osservare in un museo paleontologico di ossa di dinosauri, onde rassicurarsi sorridendo che quei mostri non esistono più, che fanno parte solo del passato.
E allora ci si chiede stupiti perché esistono il terrorismo, la guerra in Iraq, le torture militari, e subito si corre a rassicurarci con la sorridente blandizia dei premier televisivi, con la burbera bonomia dei presidenti texani, custodi dell’ordine mondiale contro il disordine di chi reagisce alla violenza legittimata, alla violenza giustificata in nome della democrazia, della libertà, e di tutto il corollario di maschere democratiche, messe in campo dal capitalismo a oltranza più sfrenato e ipocrita.
E c’era una volta il passato… quando era la memoria a guidare il presente, una memoria lingua viva dei morti, i quali oggi finiscono in discariche, piuttosto che in cimiteri, perché fa male alla Coca Cola il de profundis, fa male alle multinazionali del petrolio un requiem per i soldati morti in guerra, da seppellire frettolosamente con una cerimonia di patatine Mc Donald con sugo di generali, bandiere, e cordogli di capi di Stato.

E se di passato possiamo ancora parlare è come se ci riferissimo solo a un passato remoto, dal momento che il passato prossimo e l’imperfetto sono stati aboliti dalla sintesi linguistica della pubblicità.

Ed allora, dopo trent’anni, da quando pubblicai sette microsolchi di canti etnici registrati in studio, mi accingo a pubblicare di nuovo quelle esecuzioni esemplari, effettuate dagli autentici rappresentanti di una cultura millenaria, già in crisi negli anni Settanta e prossima a sparire.
Oggi, difatti, quegli esecutori sono quasi tutti defunti, né sono stati sostituiti da eredi culturali in grado di rimpiazzarne l’interiorità religiosa, l’autorevolezza rappresentativa, che una volta garantivano la funzionalità collettiva di quei canti, di quelle musiche, di quei gesti, di quei riti. In effetti, ciò che si è esaurito con la scomparsa di quei virtuosi del tamburo, della vocalità, è la religiosità, la loro sacerdotale sacralità, che determinavano lo zenit del ritmo e delle modalità stilistiche, in virtù delle quali prendeva vita quel tessuto liturgico di dialoghi, di improvvisazioni, di linguaggi atemporali in cui si riconosceva tutta una gente, in cui ci si accampava provvisoriamente in un presente metastorico, che inglobava il passato e si proiettava nel futuro.

Né di ciò erano inconsapevoli quegli antichi rappresentanti della tradizione, i quali definivano le feste e le manifestazioni ad esse associate come pura devozione e rilevavano che nei giovani il movente devozionale era quasi assente, per cui la tradizione agonizzava senza prospettive di continuità futura.

E la tradizione, difatti, si è spenta di colpo, di botto, come colpita al cuore da un infarto culturale, fulminata da ischemia alle coronarie cui non giungeva più il sangue puro della collettività, cui quelle espressioni erano necessarie come l’ossigeno alle vie respiratorie della propria identità. E la Campania ha perso un bene inestimabile, un’anima culturale da considerarsi patrimonio dell’umanità; un’anima che viveva in accordo con la natura, nel rispetto degli alberi, delle acque, delle lucciole, nel rispetto di quella collettività che, malgrado lo sfruttamento di cui era vittima e i secolari disagi, mostrava una sua autonomia culturale di cui era fiera e soddisfatta. Né qui sto a rinverdire il mito del buon selvaggio o a proporre l’arcadia del sottoproletariato. Ma, in riferimento alla città di Napoli e al suo circondario, se si è estinta la tradizione, non si è affatto estinta quella classe di esclusi, di emarginati che con l’antica tradizione si esprimevano. Parlo di quegli abitanti della periferia, della Sanità, dei Vergini, di San Carlo all’arena, della Ferrovia, del Vasto, di Secondigliano, di Scampia; parlo di quei ragazzi ai quali è preclusa ogni speranza di inserimento, di occupazione stabile; per i quali lo Stato e le istituzioni, essendo assenti, sono considerati estranei o addirittura nemici; giovani che, sprovvisti di titoli di studio, sopravvivono alla men peggio, magari praticando lo scippo, la piccola truffa, il furto occasionale. Ma è doveroso parlare anche di altri che, a onor del vero, se non emigrano al Nord o in Germania, si sottopongono a essere sfruttati come ragazzi di bar, come muratori sottopagati a giornata, come idraulici, come operai in fabbriche abusive, per lo più pagati al nero e quindi privi di qualsiasi assistenza sociale. Essi sono amaramente convinti di non avere un’identità civile, ma di vivere di contrabbando in una società napoletana dove vige da secoli la cultura del privilegio, della raccomandazione, della sopraffazione sociale, della divisione profonda tra i figli di papà e i paria. Infine parlo di quei ragazzi che, cedendo alle lusinghe del consumo, a una disperata rabbia autodistruttiva, cadono nei tentacoli della camorra, dello spaccio di droga, essi stessi vittime di stupefacenti, per cui, in fase terminale, li vedi traballanti per le vie, o giacenti qua e là, sulle panchine, sotto i portici, inseguendo un illusorio paradiso senza Bronx e quartieri bene, senza angeli poliziotti, senza distinzioni tra santi e dannati.
Frequentemente li ho osservati, questi sfiduciati giovani che sanno di non essere nessuno, eroi e vittime della loro precarietà, con gli occhi fissi nelle vetrine del centro della città, in Galleria, in Via dei Mille, lì dove si espongono gli abbigliamenti firmati, le scarpe, le cinture e i capi di vestiario come quelli degli “amici” televisivi dei reality show, e il cristallo stesso riflette col cinismo dei prezzi lo scandalo di una società classista divisa in ricchi e poveri, in privilegiati e sfruttati.
Ma la menzogna metropolitana dei mercati videocratici non può scalfire la lucidità di chi sa di restare dall’altra parte, di chi sa che non consumare significa non esistere; insomma, quei ragazzi, proprio specchiandosi in quelle ostentazioni di benessere fittizio, sono consapevoli di restare esclusi dal video, da quelle vetrine, dalle stesse discoteche in cui si sentono più frustrati che mai, pur possedendo, talvolta, la moto o la macchina di seconda o di terza mano e il telefonino.
E alcuni di loro li ritrovo nelle candide divise dei fuienti di Madonna dell’Arco, in un tragicissimo rituale nel corso del quale, in piena città, essi si mostrano scandalosamente religiosi, eppure esclusi dalla stessa Ufficialità della Chiesa. Ma alle antiche feste, no, essi non partecipano più come prosecutori dei cantatori e dei suonatori, che pure appartenevano alla loro identità o non identità di esclusi. Del resto, nella babele del capitalismo vertiginoso, dei modelli di comportamento mediatico, quale rassicurazione offrirebbe una cultura popolare, da sempre considerata contrassegno dei poveri e degli emarginati?
Quindi, ciò che oggi sopravvive nelle date rituali, nelle larve di feste definitivamente defunte, è lo stupore di alcuni vecchi che assistono scuotendo il capo a danze e a canti totalmente svuotati di forma e di contenuto, spesso gestiti dalle Pro Loco, da organizzazioni comunali, o pseudo culturali di carattere politico.

Accade spesso, quindi, di osservare, in provincia, giovani borghesi muniti di tamburo e ragazze abbigliate con lunghe gonne esotiche esibirsi in danze (dette a sproposito “tammurriate”) ridotte culturalmente alle finzioni di una società in cui, pur essendo proibito essere poveri, la povertà è rappresentata da blue-jeans lisi e fintamente laceri; in cui si parla a sproposito di solarità, di energia, di mantra, di psicanalisi, di liberazione, come di tammorre, di tarantelle e di tutta quella paccottiglia, di quella chincaglieria che costituisce, tra l’altro, la rappresentatività del perbenismo culturale di tipo sinistrese.
Né costoro hanno consapevolezza che nell’autentica tradizione un’esecuzione musicale non ha nulla a che vedere con l’esibizione; che la devozione non lascia spazio al compiacimento; che per partecipare a una festa bisogna essere coro e non protagonisti.
Ed ecco, invece, a Madonna dell’Arco, come nel centro storico di Napoli, altri gruppi di giovani agitare insensatamente sonagli e tamburi, ragazze dimenare le braccia e dinoccolare i polsi per scuotere le castagnette, scimmiottando impudicamente le contadine, senza rendersi conto di essere prive di quell’aristocrazia che connotava l’antica gestualità delle classi rurali. Essi, insomma, rappresentano, magari inconsapevolmente, quella gioventù priva di punti di riferimento, ma anche quell’arroganza culturale della piccola e media borghesia, quella superficialità vorace alimentata dalle mode, quel mimetismo comportamentale e colonialistico che tritura in un’unica poltiglia il tarantismo, il reggae, le fronne, il blues, le tammurriate e tutto ciò che oggi costituisce la marmellata rappresentativa del giovanilismo mediatico, di quei giovani, ahimè, già morti prima di diventare vecchi, di quei giovani che esprimono un vuoto di valori, e si proiettano nella mercificazione dei mass-media: ragazze super truccate con anelli al naso, alle sopracciglia, alle labbra, a ombelichi scoperti, e ragazzi palestrati in blue-jeans cadenti, per lasciare scorgere l’elastico degli slip marcati doc. Il rovescio della medaglia è costituito dai ragazzi proletari che, angosciati dalla loro diversità, pur indossando le apparenti uniformi del consumismo, dopo aver barattato la loro identità, ritrovano nelle vetrine delle proprie frustrazioni gli oggetti della loro antica cultura, privati dell’anima ed esposti in vendita come prodotti di consumo.
Alla luce di tali constatazioni, di tali inquinamenti, ho deciso di pubblicare di nuovo quei sette microsolchi, e aggiungere a quei materiali una serie di registrazioni effettuate sul campo all’inizio degli anni Settanta. Si tratta di nastri incisi proprio nel momento rituale delle feste, magari privi di perfezione tecnica, ma ricchi di una coralità dirompente, di una verità espressiva, di uno spessore rituale, religioso, rappresentato al massimo.
Saranno queste registrazioni la celebrazione dell’assenza. Ma saranno, esse, la cartina di tornasole per evidenziare le innumerevoli mistificazioni e contraddizioni, operate in nome di un mondo estinto?
Ed allora, in rapporto a quei canti registrati trenta anni orsono, espressioni di un simbolico anno lunare, ho organizzato gli altri materiali come espressioni di un anno solare. Il cerchio si chiude, la sacra rappresentazione è da considerarsi compiuta, come quelle antiche immagini della crocefissione di Cristo, con il sole a destra e la luna a sinistra.


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